News 15 Gennaio 2016

Il Fattore Umano Nella Storia Senza Fine Della Distribuzione carburanti

«Molta gente crede di pensare mentre sta solo riordinando i propri pregiudizi»  (William James)

Relazione di Alessandro Proietti

Gentili Signore e gentili Signori,

buon pomeriggio. Per chi non mi conoscesse sono Alessandro Proietti, ingegnere, da quasi 50 anni nel settore petrolifero, con esperienze di vertice in due ben note multinazionali e, da “pensionato”, come presidente di Nuovo Progetto prima e poi di Assoindipendenti, una esperienza professionale ed umana interessante al fianco di molti imprenditori del settore anche come “retista senza rete” con tutti i vantaggi e gli svantaggi del caso.

Un vantaggio è certo perché “retista senza rete” vuol dire non avere interessi personali nelle vicende delle quali mi sto occupando e questo, in determinate situazioni, mi mette in una posizione di vantaggio sulla gran parte dei soggetti con i quali mi confronto. Non ho mai avuto la pretesa di essere il depositario di esperienze e conoscenze uniche, né di soluzioni facili per i problemi del settore distribuzione carburanti, non escludo la possibilità di commettere errori di valutazione, ma certamente sono errori in assoluta buona fede perché, appunto non sono condizionato da interessi di parte.  Anche per quanto riguarda l’incontro di oggi non ho la pretesa di insegnare nulla a nessuno e voglio solo invitarvi a guardare a certi problemi da una prospettiva diversa da quelle che vi sono forse abituali e forse utile nella ricerca di una loro soluzione.

La proposta di oggi è rivolta soprattutto agli imprenditori privati che operano nella distribuzione carburanti, ma forse non solo. Certamente la mia sembrerà una provocazione che vuol essere però costruttiva, un convinto messaggio di speranza e di fiducia, riguardo al futuro di questo mercato. Voglio infatti sostenere la tesi per la quale se una clinica rivisitazione delle criticità che abbiamo conosciuto in questi ultimi 10 – 15 anni ne suggerisce l’origine endogena, riconducibile a qualche malfunzionamento di quel “Fattore Umano” che è alla base di ogni nostro agire, proprio un po’ di “manutenzione” a questo “Fattore Umano” può modificare la situazione ed eliminare tali criticità, magari anche in forma definitiva. Forse ho scelto un modo complicato per dire che il destino di questo mercato, di questo sistema e quindi di noi stessi è fondamentalmente nelle nostre mani mentre l’attribuire le responsabilità ad altri, a situazioni al di fuori del nostro controllo, è soltanto un tentativo malriuscito di procurarci un alibi per nascondere la nostra incapacità.

Intenderei così proporvi una particolare lettura delle esperienze che abbiamo fatto in questi anni, la rilettura di una serie di “episodi” che hanno segnato l’evoluzione, o involuzione, di questo mercato, una lettura degli episodi che non vuol assolutamente essere un anche troppo facile, ed inutile, processo per individuare responsabilità perché abbiamo imparato che i “presunti errori” devono essere sempre valutati nel contesto del particolare momento storico in cui eventualmente sono stati commessi…!

Anticipando l’obiezione di chi giustamente osservasse che non è poi una grande scoperta sostenere che ogni evento è riconducibile ai comportamenti di noi umani faccio notare che mentre nella storia del mondo  il processo evolutivo non è mai stato lineare e costante ma piuttosto si è realizzato attraverso il disordinato ma costruttivo concatenarsi nel tempo di eventi anche causali, caotici, contraddittori, nel nostro sistema sembrerebbe che l’ evoluzione, o involuzione, sia piuttosto la conseguenza di eventi a senso unico, una deriva costante del “Fattore Umano” verso una monocultura che è andata consolidandosi nel tempo, circostanza che sarebbe da considerarsi quasi assolutamente positiva se la storia, quella con la “S” maiuscola non ci facesse sorgere il dubbio che le monoculture esasperate creano più problemi che vantaggi.

Potrebbe così venire il dubbio che in questi anni non abbiamo sempre “fatto bene” come invece riteniamo e allora vi anticipo la “parola chiave” delle conclusioni: cambiare, cambiare, cambiare! Un cambiare “vero” con la volontà autentica di rimettere in discussione tutto o quasi tutto. E’ per questo che ho scelto come sottotitolo la frase di William James: «Molta gente crede di pensare mentre sta solo riordinando i propri pregiudizi».

William James, americano nato a New York nel 1842 fu medico, psicologo e filosofo con cattedra ad Harvard per quasi tutta la sua vita.  Se qualcuno di voi ricordasse un mio articolo pubblicato sulla Staffetta qualche tempo fa in cui dichiaravo la mia simpatia nei confronti di chi aveva scelto Sergio Marchionne per guidare il profondo rinnovamento nella Fiat, malgrado, direbbero alcuni, la sua laurea in filosofia, avrebbe motivo di ritenere che una troppo spiccata simpatia per i filosofi da parte di un ingegnere potrebbe essere sintomo di qualche turba mentale.

Non escludo questa possibilità…., ma vorrei fare presente che questo signor James è diventato famoso sostenendo “Il Pragmatismo come filosofia”.  In particolare egli respinge l’idea che il fattore principale della evoluzione della mente umana sia conseguenza dell’adattamento dell’uomo mentre, al contrario, rivendica “il valore dell’agire umano”, della volontà di ogni individuo, della capacità degli uomini di interagire con l’ambiente in maniera creativa, determinando condizioni di vita sempre più rispondenti ai loro bisogni e interessi. Insomma una filosofia che dovrebbe essere condivisa dagli imprenditori in genere.

Mi rendo perfettamente conto di invadere spazi scolastici che non mi appartengono perché un tema di questo genere richiederebbe una professionalità appropriata, in psicologia, sociologia, scienza dei comportamenti, competenze che ovviamente non ho ed è ovvio che mi piacerebbe che l’argomento fosse trattato da esperti, ma non c’è stato il tempo ed il modo per farlo, almeno in questa circostanza. Mi riprometto di fare meglio nel futuro: d’altra parte se qualche tempo fa voleva essere solo una scherzosa provocazione il suggerimento di associare ai tanti esperti che siedono attorno a certi tavoli uno psicologo trova in situazioni recenti qualche ragione d’essere.

La mia lista delle situazioni comprende: (1) La crisi viene da lontano – La rete dei punti vendita dagli anni ’70 al 2010; (2) La liberalizzazione dei prezzi carburanti; (3) La fine servizio pubblico; (4) L’ immagine del “sistema”; (5) Gli imprenditori privati; (6) I gestori; (7) Una crisi vera o “falsa” ? (8) I “Ghost”; (9) La razionalizzazione della rete e le sue driving forces; (10) Le Istituzioni; (11) La GDO; (12) Le pompe bianche e gli indipendenti; (13) Le vendite “anomale”

La lista è lunga e certamente non possiamo passarla tutta in rassegna. Possiamo scegliere…., a caso, anzi per favore scegliete voi. Il risultato non cambierà perché c’è sempre un minimo denominatore unico: il malfunzionamento del “Fattore Umano”.

(La scelta cade su (a) Immagine del “sistema”; (b) Una crisi vera o falsa ? ; (c) Le pompe bianche e gli Indipendenti”; (d) Le vendite “anomale”).

  • L’ immagine del “sistema”

Non ho idea se recentemente siano state fatte ricerche di mercato sulla immagine in Italia del “sistema” petrolifero nel suo insieme che quindi include società petrolifere, imprenditori privati, gestori, insomma tutti, ma ne dubito.  Nel caso le raccomanderei.  Infatti ritengo che il “sistema” in Italia abbia molti più meriti di quelli che gli vengono riconosciuti: standard qualitativi dei prodotti, efficienza energetica, emissioni in atmosfera, oil spill, bonifica dei siti contaminati, upgrading dei processi di raffinazione, senza trascurare il merito di assicurare il rifornimento su un territorio di 302.000 Kmq a 61 milioni di abitanti garantendo lavoro ad un elevato numero (qualche centinaia migliaia) di persone tenendo conto dell’indotto.

 

Posso testimoniare che molte accuse rivolte al sistema petrolifero riguardo alla strategie dei prezzi erano e sono ingiuste al di là delle normali pratiche commerciali.  Se accordi, cartelli ed altro esistono riguardano l’Opec e quindi la politica come pure la finanza internazionale.

Qualcuno potrà non crederci ma è così, e questo ci porta all’ argomento “immagine” del sistema petrolifero, alla percepita scarsa trasparenza del suo operato, alla convinzione che anche la sola attività di distribuzione carburanti rappresenta ancora … una miniera d’oro che è possibile sfruttare, una convinzione soprattutto da parte dello Stato!  Sono infatti convinto che se lo Stato ed Istituzioni varie si inventano Robin Tax, Accise, IRPA, Cosap per riempire le casse dello Stato e dintorni, non è solo per una esigenza di certezza e comodità, ma soprattutto perché si ritiene che il “sistema carburanti” è in grado di sopportarne l’onere.

Dunque meriti poco noti all’ uomo della strada mentre arcinote sono le “colpe” da attribuire al sistema. Già l’appartenenza al mondo petrolifero è percepita già in sé una colpa grave perché alle società petrolifere si attribuiscono tendenze di egemonie con gravi responsabilità in fatto di guerre, rivoluzioni, cartelli, dissesti finanziari, mega-inquinamenti, cattive informazioni e quanto d’altro…. ma soprattutto l’uomo della strada, nel suo semplice ragionare non comprende alcune situazioni.

La gente non capisce come può esserci una significativa differenza di prezzo tra punti di vendita, anche tra quelli di un medesimo brand, nella sua scarsa conoscenza dei meccanismi non capisce perché prezzo alla pompa e quotazioni internazionali del greggio siano spesso in controtendenza, non capisce perché siano possibili “scontoni” che fanno perdere qualche centinaio di milioni di euro a chi li fa, non capisce come mai un consolidato differenziale verso la media europea dei prezzi possa all’improvviso quasi annullarsi scendendo senza nessun intervento strutturale, ad esempio…. senza quella razionalizzazione della rete alla inefficienza della quale veniva attribuita la maggior parte della differenza verso l’Europa.

La gente non capisce la contraddizione tra strategie di offerta di servizio e proliferazione infinita dei “ghost” e la concorrenza che questi fanno agli impianti della stessa bandiera “non-ghost”. La gente non capisce perché la negoziazione degli accordi tra gestori e società petrolifere possono andare avanti per anni, e magari essere rimessi in discussione il giorno dopo, come se poi il gestore rappresentasse la causa principale di tutti i problemi del settore e della crisi attuale. La gente non capisce perché per risolvere problemi che sono solo del sistema si debba ricorrere alle Istituzioni affinché intervengano con strumenti legislativi…. La gente si chiede il perché di tanta confusione e del perché nessuno sente il dovere di dare spiegazioni.

Se esiste un problema di immagine delle società petrolifere verso l’esterno ce ne è un altro non meno importante all’interno del sistema stesso laddove gli stessi addetti ai lavori hanno difficoltà a cercare la sola idea di un minimo di strategia, un fil rouge, il segno di un legame, di una continuità rispetto a quelle che dovrebbero pur essere comuni prospettive di futuro.

Le società petrolifere dimostrano una esuberante creatività con strategie che vengono proposte e talora in breve contraddette, con la tendenza ad un unico mercato extra rete, con il disimpegno quasi voluto da solide relazioni stabilitesi nel tempo attraverso collaborazioni di comune soddisfazione, con la distruzione dei margini grazie a “ghost”, pompe bianche.  Le società petrolifere dichiarano la insostenibilità di un mercato da loro stessi generata e comunque continuano in un iter che con l’efficienza non ha niente a vedere.  Per quanto riguarda la ristrutturazione della rete, gli addetti ai lavori non hanno capito due cose: la prima come fosse possibile che società primarie avessero la proprietà di impianti a bassissimo erogato e di “immagine” che sconfina con l’indecenza e come mai invece di confezionare pacchetti da mettere in vendita non abbiano sentito il dovere morale di disinvestire tali impianti tout coeur. Soprattutto le società petrolifere offrono oggi il fianco alla critica di una colpevole apparente scarsa attenzione allo sviluppo di un mercato parallelo, quello delle “vendite anomale”, ristretto, ma neppure tanto e comunque quanto basta per contribuire ad aumentare il caos, semmai se ne sentisse la necessità.

Nell’ormai lontano 2007 con alcuni dei miei amici retisti avevo teorizzato sulla probabile trasformazione delle società petrolifere da “mamme” affettuose, forse troppo affettuose e protettive, a “matrigne”. Oggi comincio ad avere il dubbio di dover chiedere scuse alle matrigne. Certo, è l’evoluzione del mercato ad aver generato certi cambiamenti nelle relazioni tra i vari soggetti del sistema, ma il mercato non è una entità astratta, una variabile indipendente: il mercato di oggi è quasi al 100% quello che le società hanno, consapevolmente o meno, generato.

All’interno del sistema l’imprenditoria privata non è comunque immune da critiche. Di certo non sono i privati i responsabili della crisi come non lo sono i gestori. La crisi è responsabilità di altri se non al 100% poco manca, ma la categoria degli imprenditori privati sembra ignorare l’evoluzione del mercato e degli scenari futuri e questo non aiuta.

Per decenni gli imprenditori privati hanno potuto concentrare le loro risorse finanziarie ed umane praticamente in un’unica direzione: lo sviluppo della loro rete allo scopo di aumentare il giro di affari acquisendo nel contempo quel potere negoziale che ha consentito accordi sempre migliori con le società petrolifere. Al resto pensava “mamma società”. Un circolo, vizioso, che è durato tantissimo.

Quali errori di valutazione sono stati commessi? Gli imprenditori privati sono per natura commercianti nel senso pieno del termine: se una iniziativa ha prospettive di profitto, a maggior ragione nel breve termine, va sviluppata e così è stato fino a ieri con la benedizione delle società petrolifere che hanno spinto a fare, agli investimenti. E’ l’alibi della categoria.

E’ un po’ meno “alibi” il fatto che abbiano continuato ad agire così nel tempo, fino ai giorni nostri, quando, ad esempio, dovrebbe essere chiaro a tutti che un impianto con il potenziale di vendita inferiore ai 2-3 milioni di litri non deve essere neppure pensato, come pure non si può pretendere la difesa di un pv che è irrimediabilmente perdente ed ancora di più non si può pretendere di difendere ad oltranza un impianto palesemente incompatibile.  Molti imprenditori privati continuano a vivere nel loro “giardino privato” operativo e culturale, non curandosi più di tanto di quello che avviene attorno a loro, anche perché molto spesso lo ignorano.

Nel determinare una situazione di questo genere  il “Fattore Umano” si è manifestato nelle scelte strategiche non troppo ben meditate e comunque contraddittorie, solo frutto di pressioni ed esigenze contingenti come pure nell’ agire per il solo vantaggio economico del momento che ignora il costo reale che prima o poi si dovrà  scontare. Ancora più grave la responsabilità del “Fattore Umano” nell’avere favorito la presunzione di poter ignorare “gli altri”, il mondo circostante oltre i confini degli interessi individuali, la presunzione di non dover dare spiegazioni a nessuno come se agli “altri” non fossero dovute. Oppure l’esercizio di una forma deviata del “Fattore Umano” perché si vuol continuare ad esercitare un potere che ormai si è molto ridimensionato ?  Semplice sottovalutazione del problema ? Semplice negligenza ?  Il sistema petrolifero vuole continuare a mantenere un “low profile” verso l’esterno?  Forse avrà i suoi bravi motivi ma poi non si lamenti troppo delle conseguenze, tra le quali…… l’aumento delle imposte, tasse e quanto d’altro.

In questa situazione il recuperare una immagine fatta di trasparenza e quindi di credibilità ed affidabilità rappresenta ormai quasi una “mission impossible” ma la cosa più grave è nel fatto che apparentemente nessuno se ne faccia un problema.

  • Una crisi vera o falsa ?

Sono anni che si parla di crisi del settore e ci siamo convinti che sia così.  Sì, certo è così, ma proviamo ad andare un po’ a fondo sulla questione per capirne la consistenza e la sua reale influenza  nel settore che ci riguarda, quello della distribuzione carburanti.  Lo so… è un’altra provocazione ma la provocazione è pure un elemento fondamentale nella dialettica che è utile alla comprensione dei fatti.

Per cominciare è opportuno attribuire un indice di gravità della crisi e, solo per semplicità, ne considererei due: un “codice rosso”, come negli ospedali… uguale ad alto rischio di decesso ed un “codice verde” uguale a possibili danni, anche seri in prospettiva, ma senza rischio di morte, almeno immediato.

Un discorso a parte va fatto per la raffinazione ma per la distribuzione carburanti siamo forse più in zona “verde” che “rossa” in quanto per crisi si intende soprattutto la crescente difficoltà a lavorare ed il peggioramento dei risultati economici rispetto agli anni precedenti ma non fino al punto di portare i libri in tribunale e se qualcuno lo ha fatto è stato per motivi diversi. Al contrario l’acquisto da parte di Q8 è una dimostrazione di grande fiducia nei confronti di questo mercato. Quindi il “codice verde” appare più che appropriato.

Non per questo non si deve però rinunciare a possibili terapie anche perché il prolungarsi di una “crisi verde” poi inevitabilmente finisce al “rosso”.  Quello che dovrebbe dare più fastidio è il fatto che, “verde” o ”rossa” che sia, si tratta di una crisi per la maggior parte generata da fattori endogeni.  Infatti non sta causando tanti danni la riduzione dei consumi industry quanto il caotico fluttuare dei volumi residui tra i vari brand, tra retisti e gestori, il tutto frutto amaro di una concorrenza esasperata vissuta in modo schizofrenico. Promozioni e soprattutto “scontone” ne sono un tragico esempio.

Una semplicissima analisi sviluppata dal sottoscritto qualche tempo fa portava alla conclusione che una promozione è profittevole solo per quelle società che hanno una quota di mercato compresa tra l’8 ed il 12%. Questo vuol dire che, per quanto possa la promozione possa essere considerata di successo, difficilmente una società con quota di mercato inferiore all’ 8% la troverà profittevole perché non riuscirà a coprire i costi fissi associati come la pubblicità, l’organizzazione, ecc. D’altra parte anche una società con quota superiore al 12 % è destinata a fare un bagno di sangue dal momento che la maggior parte dei costi sarà generata dai clienti che sono già fidelizzati: è il fenomeno della cannibalizzazione dei volumi e dei margini. Guardando alle promozioni da questa particolare arriviamo all’ assurdo che per coloro che hanno quote di mercato al di fuori di quel 8-12 % c’è solo da augurarsi che la promozione sia un flop… cosa improbabile quando la promozione è fatta di sconti!

Eni ha dichiarato che la promozione “scontone” ha generato una perdita di ca. 180 milioni di Euro, ma i miei calcoli portano ad una cifra superiore al doppio e, fatto non secondario, in questi numeri non c’è l’effetto del trascinamento in basso dei margini oltre la fine della campagna. Se poi vogliamo considerare la perdita “imposta” alle altre società concorrenti… ci troviamo davanti ad un dissennato inutile spreco di risorse enormi. Vogliamo negare che nella crisi c’è una ampia componente umana ?  La campagna dello “scontone” è stata una impresa folle. Semplicemente folle! Chi l’ha voluta ?! Beh, diciamo il …. Fattore Umano!

Altri esempi non mancano…. Vogliamo parlare della espansione delle vendite di carburanti autotrazione nel mercato extra rete che cannibalizza quello rete ?  Quale è la logica della sistematica distruzione (GDO, pompe bianche) della profittabilità di un settore rete che oggettivamente deve sostenere costi ben diversi da quelli del canale extra rete ? L’unica risposta che viene in mente è quella che, mettendo insieme i vari pezzi del puzzle, escludendo l’opzione di operazioni in perdita che non fa parte del DNA del nostro sistema,  anche l’extra rete è sufficientemente profittevole….  Se non altro in una logica integrata di downstream, raffinazione e distribuzione?

Vogliamo parlare di questa storia infinita della ristrutturazione della rete che tutti vogliono ma che nessuno è disponibile ad avviare? Se è davvero così inefficiente come si sostiene perché gli impianti non sono disinvestiti ma solo venduti con il risultato di perpetuarne l’esistenza ?

Vogliamo parlare di investimenti di brand change (per esempio nuovo look di Agip e di Q8 Easy) in tempi di crisi?  Rumors indicavano un costo dai 50 ai 100.000 € il costo di re-branding di un impianto Eni. Ne valeva la pena? Per Eni era davvero così necessario? Idem per Q8? In tempi di crisi dichiarata?!

E cosa dire del fatto che nel frattempo nuove realizzazioni e modernizzazioni hanno solo rallentato il passo e della insensata concorrenza per difendere/acquisire volumi a prezzi di fornitura inspiegabili per la più semplice aritmetica ?!

Allora dove sta la crisi ? D’altra parte se il sistema l’ha generata e non fa niente per gestirla  vuoi vedere che va bene così ?! Se non è così perché qualcuno non spiega dove è l’errore ?! Derive, degenerazione del “Fattore Umano” ? Beh, certamente sì!

  • Le pompe bianche e gli indipendenti

La domanda che mi viene molto molto spesso è: con gli anni sulla rete carburanti italiana sono proliferati gli indipendenti. Un tendenza che continuerà? Che ruolo prevede per futuro?

Per tentare una risposta occorre fare un passo indietro alla ricerca della loro origine. Anche se in qualche modo sono tutti “figli” di un mercato, che per puro eufemismo possiamo definire confuso, gli “indipendenti” sembrano appartenere a due diverse macro categorie.

La prima è quella costituita da coloro che sono “indipendenti” per scelta strategica di lungo termine, scelta alla quale sono arrivati per aver maturato l’idea che il rapporto con le società petrolifere doveva essere rivisitato per tener conto della evoluzione del mercato e della esigenza di riprendere il controllo dei fattori determinanti per la vita delle proprie aziende.

La seconda, ed oggi è quella più numerosa, è quella di coloro i quali si sono “inventati” un mestiere per sfruttare le opportunità offerte dal mercato extra rete al quale le società petrolifere hanno permesso l’ accesso nel tentativo di mantenere o recuperare quote di mercato in una situazione di ancora grave sbilancio tra offerta e domanda. Possiamo chiamarli “Indipendenti temporanei”.

La sostanziale differenza è nel fatto che i primi, “indipendenti strategici”, sono già ben strutturati, o si preparano ad esserlo, per agire con modelli operativi, obiettivi e strategie in una logica di lungo termine non molto diversamente da quelli delle società petrolifere mentre i secondi, “indipendenti temporanei”, basano la loro attività quasi esclusivamente sul prezzo, all’acquisto ed alla vendita, del giorno per giorno.

E’ ragionevole pensare che questa seconda categoria di indipendenti, possa incontrare serie difficoltà di sopravvivenza nel momento in cui la situazione di sbilancio tra offerta e domanda tenderà a ridursi e poi annullarsi. Una classe di operatori che se non è destinata a sparire inevitabilmente non potrà che avere un ruolo secondario rispetto agli altri attori.

Al contrario gli “indipendenti strategici” proprio per aver sviluppato un modello di business molto efficiente si qualificheranno come interlocutori privilegiati delle società petrolifere creando le condizioni di vere partnership. Ne segue che per questa categoria di imprenditori mi è sempre apparsa impropria la denominazione di “pompe bianche” perché suggerisce una immagine riduttiva e negativa che non rende giustizia a società e strutture che magari in geografie più ristrette dimostrano standard operativi e di immagine ben superiori ai top players tradizionali a cominciare dall’ Eni. Questa è anche la ragione che mi ha portato alla “invenzione” di Assoindipendenti nell’obiettivo di dare loro una rappresentanza degna del loro rilevanza nel mercato di oggi e di domani.

In questo caso la deriva del “Fattore Umano” si è manifestata in due forme di segno opposto.  Da una parte la strategia di difesa/acquisizione di volumi e quota mercato portata avanti ad oltranza dalle società petrolifere in questi ultimi anni ha generato un “mostro” senza pensare alle conseguenze: un nuovo segmento di mercato, quello degli “imprenditori temporanei”, troppo spesso anche “improvvisati”, qualche volta con un solo punto di vendita, forse anche non proponibile per un convenzionamento.

Dall’altra parte la stessa strategia di aprire ai punti di vendita la possibilità di approvvigionarsi in extra rete ha favorito lo sviluppo ed il consolidarsi del segmento “indipendenti strategici” i quali hanno avuto la possibilità di avvicinarsi alle problematiche del supply e della logistica acquisendo quel know-how che ha accresciuto il loro potere negoziale nel presente e certamente sarà loro ancora più utile nel futuro. Una realtà che non potrà essere più che cancellata e che imporrà un nuovo equilibrio di ruoli e di responsabilità, di oneri e onori. Quella che ancora sfugge loro è la percezione dell’enorme potenziale rappresentato dalla aggregazione delle loro risorse individuali, ma questo è un altro discorso che riprenderò nelle conclusioni.

Non ho ancora detto nulla riguardo al loro futuro. La mia previsione di scenario di mercato futuro, futuro ma non troppo lontano, è quella delle partita della “efficienza” che tre squadre di players si giocheranno sfruttando al meglio i loro punti di forza.  Gli altri saranno solo comparse o semplici spettatori.

Ci saranno le società petrolifere, quelle che conosciamo oppure altre, le quali alla fine di un percorso non certo facile avranno ristrutturato, razionalizzato, ottimizzato le loro operazioni con reti ridotte rispetto ad oggi ma altamente efficienti sia per erogato e per i vantaggi di una logistica, anch’essa ottimizzata.

Il secondo attore sarà la GDO che avrà definitivamente consolidato la sua presenza nel mercato della distribuzione carburanti magari innalzando ancora il livello di  efficienza non soltanto in termini di erogato ma trovando anche un suo spazio nella logistica.

Il terzo attore è l’imprenditore privato “indipendente” il quale avrà fatto propria una nuova cultura di business e si sarà trasformato in “manager” di una struttura che non sarà più il suo abituale negozio perché avrà occupato in modo efficace gli spazi lasciati liberi dalle società petrolifere.  In realtà per imprenditore privato “indipendente” non intendo la singola azienda, ma una pluralità di più aziende aggregate almeno in forma di “Holding Strategiche” per dare luogo ad una massa critica e ad una struttura organizzativa che consenta di acquisire quel know-how, e di conseguenza il potere negoziale adeguato per gestire il rapporto con fornitori di prodotto e servizi anche in una logica di autentica partnership.

In uno scenario di questo genere diventa peraltro ragionevole pensare che tra GDO ed imprenditori indipendenti, una volta raggiunti standard di efficienza operativa complessiva confrontabili, possano crearsi condizioni di una stretta collaborazione ed integrazione alla ricerca di ulteriori ottimizzazioni ben oltre quanto oggi ci appaia possibile.

Domanda: in tale scenario ridotto a tre “players” in che cosa si manifesterà la concorrenza ? Beh, in un sistema già molto efficiente, al di là della ricerca di ulteriori spazi di efficienza, che comunque non possono essere infiniti, la competizione si giocherà sul campo della creatività, della innovazione, dei prodotti, dei servizi più sofisticati, magari rispolverando le strategie del servizio e del non-oil….. Se non altro sarà una concorrenza articolata in forme diverse suggerite dalle nostre capacità, dalle nostre intuizioni, da un più solido ancoraggio ai mercati locali e non imposte da altri.  Non è poco.

  • Le “Vendite  anomale”

Continuo a chiamarle “anomale” perché, come cittadino, mi rifiuto di pensare che siano “fuori legge” come viene riportato da un po’ di tempo a questa parte in varia letteratura di settore. Dico questo in segno di rispetto nei confronti delle Istituzioni le quali sono tutte ben informate su quello che sta succedendo nel mercato, anche perché le offerte “anomale” sono di pubblico dominio via e-mail con nomi, cognomi, recapiti postali e telefonici. Infatti se certe vendite fossero viziate da qualche illegalità mi sarei aspettato che le Istituzioni, e non solo, avessero già preso le adeguate iniziative.

Alcuni stimano nel 10% del totale gasolio venduto in rete in un anno i volumi “anomali” intesi come venduti in regime di credito d’iva ovvero circa 1,7 miliardi di litri. Se tale assunzione fosse valida il credito d’Iva che il segmento distribuzione carburanti non finisce nelle casse dello Stato ammonterebbe a ca. 400 milioni di Euro/anno (crediti inesigibili per oltre 2 miliardi di Euro ?!), qualcosa che con i tempi che corrono, esodati, pensioni, sanità, ecc. ecc. non appare del tutto trascurabile.

Certo, sarebbe pure interessante capire come il sistema delle “new company” che oggi popolano il mercato della distribuzione carburanti possa generare nel suo insieme un credito Iva di tali dimensioni e soprattutto sarebbe interessante capire perché le società che possono vantarlo, in pratica è un autentico cash disponibile, vi rinuncino tanto facilmente.  Ci sarebbe anche da capire che fine faceva il credito d’Iva di queste dimensioni negli anni precedenti.

Sorprende anche il fatto che una significativa parte di queste vendite “anomale” apparentemente si realizzi con gasolio reso disponibile anche attraverso la logistica nazionale. Viene allora spontanea la domanda del perché le società che all’origine sentano in dovere di vendere gasolio a società che potrebbero non sapere neppure di che colore è il gasolio.   Vendere attraverso rete o extra rete non è più un servizio pubblico quindi una società può decidere di non vendere, per qualsiasi ragione, anche semplicemente …. di antipatia! Certamente pensando male….. ma ricordando Andreotti….. qualcuno ritiene che la vendita a certi “new-comers” potrebbe risultare più profittevole rispetto a quelle sul mercato. Personalmente mi rifiuto di prendere in considerazione una ipotesi del genere perché gli effetti sul mercato sono disastrosi nei “numeri” e nell’immagine.

La storia delle vendite “anomale” non vi fa pensare a qualche grave deriva del “Fattore Umano” laddove per qualche volume in più e qualche € in più viene meno quel minimo di etica che dovrebbe esserci in qualsiasi nostra attività ? E se vogliamo anche calpestare l’etica, una virtù oggi sempre più rara, chi opera in questo strano mercato parallelo, chi vende e chi compra, pensa davvero di agire nell’interesse di un mercato che è stato già messo in ginocchio mentre dovrebbe essere suo obiettivo contribuire al suo recupero ? Cos’è la strategia del “tanto-peggio-tanto-meglio” ?

Se poi è tutto così semplice e dovesse risultare tutto perfettamente legale perché allora non andiamo tutti, dico tutti, a comprare dai brokers, almeno fino a quando i crediti d’Iva saranno azzerati…. ?!  Sono certo che le Istituzioni comincerebbero a pensare seriamente al problema. Perché non lo facciamo veramente ?! Come mai l’UP oltre a dedicare tempo e risorse a problematici accordi unitari per l razionalizzazione della rete non ha dato altrettanta priorità allo stop di pratiche che stanno distruggendo il mercato, che è anche il loro mercato? Scontoni irrazionali, sviluppo abnorme delle pompe bianche, altrettanto abnorme diffusione dei ghost, vendite “anomale” …. cosa è la conseguenza di una paranoia collettiva, una fatale attrazione del “cupio dissolvi” ?

MI sembra di aver capito che il seminario previsto per Venerdì 30 sul tema “Le illegalità nella gestione carburanti: origini e dimensioni” a cura di OIL&nonOIL e Staffetta Quotidiana sia stato annullato perché non è stato possibile trovare i relatori istituzionali. Vuoi vedere che alla fine un argomento del genere  non interessa a nessuno ?!  Non mi sembra per niente un buon segno ! Fattore Umano ? Beh, direi proprio di sì !

Conclusioni

Ho evidenziato 13 “tessere della storia” del sistema della distribuzione carburanti, ed avrei potuto aggiungerne altre. Ne abbiamo scelte 4 per ragione di tempo, ma va bene così perché queste 4 sono più che sufficienti per sostenere  la mia tesi di come sia stato determinante il Fattore Umano nel creare il puzzle della storia di questo sistema. Se qualcuno fosse interessato alle altre “tessere” me lo deve solo chiedere.

Si tratta dunque di un puzzle molto complicato, piuttosto un sistema di ingranaggi che dovrebbero ruotare in modo coerente ma spesso non è così perché ogni ingranaggio ha un suo motore separato che può funzionare in un senso o nell’altro e a velocità diverse così come vuole il suo manovratore al quale spesso sfugge il senso del movimento nel suo insieme.

Un modo di agire che sembra potersi ricondurre a quella componente del Fattore Umano che si chiama “monocultura” troppo spesso origine di guai come ci capita di sperimentare ogni giorno e non soltanto nel nostro lavoro. Una monocultura che si manifesta in quanto segue.

  1. L’attività di “distribuzione carburanti” con il suo bravo marketing associato, rappresenta un business indipendente dall’ upstream, dal downstream-raffinazione e dalla finanza.  Grazie anche ad un prolungato periodo di significativa profittabilità l’idea di business autonomo e autosufficiente è all’origine di un anche esagerato “overdoing” fatto da numero di impianti, da dimensioni degli impianti e delle reti,  da offerta in eccesso dell’offerta, qualità carburanti, servizi, … non-oil, da investimenti in immagine attraverso pubblicità e promozioni. Nei fatti si tratta di una attività che assicura certi risultati solo in una situazione di sostanziale e perdurante equilibrio di tutto il sistema anche oltre i confini nazionali e non solo per quanto riguarda il rapporto domanda/offerta.
  2. Se all’industria petrolifera può essere correttamente riconosciuta una leadership  nel campo dell’ energia, forse non ci è resi conto che se tale leadership è riferita al campo della esplorazione, della estrazione, del trasporto primario, della raffinazione mentre una certa monocultura ha ritenuto che questa leadership fosse trasferibile nell’ area del marketing e purtroppo con risultati alquanto negativi.  Non dimentichiamo infatti che il “sistema” in più riprese si è cimentato in un non-oil fatto di hotel, di ristorazione, di minimarket, di shop, di officine, ecc. sempre con dubbio successo per vari motivi come l’imposizione di format “dall’estero” talora estranei alla domanda ed alla cultura locale, sia per l’assenza di un know-how consolidato specifico nei vari segmenti di business.  Quasi certamente il fatto che l’attività di marketing sia stata quasi sempre affidata ad ingegneri prestati dalla raffinazione e/o da altri comparti tecnici non ha aiutato. D’altra parte è pure ragionevole pensare che le società petrolifere non abbiano operato ed operino avendo come core business il … non-oil.
  3. La monocultura ha fatto sì che “il consumatore” con le sue esigenze sia rimasto schiacciato tra le pagine di tante ricerche di mercato che riposano nelle immense biblioteche delle società petrolifere. Le campagne “Customer satisfaction”, “Customer First”, e tutte quelle che hanno seguito fino ai giorni nostri, si sono dimostrate solo iniziative di facciata, mentre era evidente l’interesse di chi le ha proposte, dal self-service degli anni ’70 ai …. ghost di oggi, dall’olio lavaggio motori ai gasoli performanti speciali, ecc. !
  4. La monocultura, che è quella della presunzione di “sapere già tutto” e di conseguenza di “non aver bisogno di confrontarsi con alcuno”, di “non sentire l’esigenza di una collaborazione con altri”. Nella convinzione  di “agire bene sempre anche nell’interesse altrui” il sistema ha sistematicamente ignorato il consumatore, tutti gli altri soggetti che fanno parte del sistema, le istituzioni, gli imprenditori privati, i gestori, la stampa.  La monocultura di società petrolifere, imprenditori privati, gestori, istituzioni è quella che fa diventare quasi un delitto di lesa maestà il non condividere le proprie “verità”. La monocultura è quella che fa ritenere superfluo curare la propria immagine, spiegare all’ “uomo della strada”, cosa fai, come lo fai, perché lo fai, per evitare le riserve mentali di un sistema poco trasparente focalizzata esclusivamente sulla massimizzazione dei profitti.
  5. La monocultura ha indotto il sistema, ancora una volta da intendersi nel suo insieme,  a ritenere di avere il controllo assoluto dei fattori che lo governano, di rappresentare la sede dove si costruiscono scenari, obiettivi e strategie per tutti, dimenticando che, sia pure con il senno del poi, qualche errore di pianificazione è stato commesso. Ne sono un esempio il non aver previsto la crisi, il non aver previsto lo sviluppo del gasolio investendo piuttosto per aumentare la produzione delle benzine, il non aver previsto la maggiore efficienza dei motori con conseguente riduzione dei consumi, di non aver previsto la crescente sensibilità al prezzo da parte dei consumatori che forse va oltre l’effetto crisi, di non aver previsto le distorsioni di una crescente influenza della finanza e della politica nel pricing del greggio e dei prodotti finiti, nel non aver capito che mercato rete e mercato extra rete non possono coesistere sullo stesso cliente.  Mi rendo perfettamente conto che con i tempi che corrono il mestiere della pianificazione è diventato difficilissimo ma forse comunque qualche errore potevamo evitarcelo.
  6. La monocultura è quella che induce a pensare di non essere mai i responsabili dei problemi che si incontrano e comunque pretendere di risolverli anche per conto altrui. La razionalizzazione della rete ne è un esempio, un problema difficile da risolvere solo perché ogni società, ogni retista, anche i gestori avrebbero la pretesa di scegliersi il percorso più comodo, lasciando ai concorrenti quello accidentato, con i “sampietrini”, il pavè, le buche. La monocultura induce dunque a ritenere di avere il diritto di monopolizzare i comportamenti degli altri, il diritto di una regia che non è più dovuta non tanto per una ormai dubbia competenza quanto per la mancanza di una visione comune di scenari e di obiettivi.
  7. La monocultura è nel periodico esasperante periodico tornare su argomenti e problemi noti proponendo soluzioni sempre solo in apparenza nuove, sempre più complesse, per risolvere problemi che per loro natura sarebbero anche troppo elementari. Il disordine è nell’agitarsi dei vari soggetti che cercano soluzioni ad un sistema di equazioni impossibile perché si tenta di massimizzare il risultato della singola variabile, quella dell’egoistico esasperato interesse del singolo, dimenticando che le variabili sono legate tra di loro da una funzione che le comprende tutte e che è la sola della quale si può ricercare un punto di massimo.

 

La responsabilità del “Fattore Umano” è dunque soprattutto nel suo aver generato ed alimentato nel sistema petrolifero una monocultura chiusa su se stessa, sui propri “credo” e sui propri “totem”, con una scarsa vocazione per la comunicazione, una monocultura alla quale è mancato l’azione moderatrice di esperienze diversificate ed è proprio questo isolamento culturale a mettere in evidenza, di fronte a certe crisi che esulano dal puro tecnicismo, la fragilità del sistema.

E’ la prima conclusione, triste, alla quale sembrano portare le argomentazioni di oggi. Dobbiamo ammettere che in tutti questi anni, complici oggettive difficoltà generate al di fuori del sistema, non abbiamo lavorato come avremmo dovuto e lo testimonia il punto di arrivo fatto di grande confusione, di assenza di visione, di strategie, di assenza di punti di riferimento, di incertezza, di timore, un circolo vizioso che ancora non riusciamo a fermare.

Questo è il … bicchiere mezzo vuoto.  C’è un … bicchiere mezzo pieno ? Certo che c’è.  Quello che fatto è fatto e non si può rimediare, ma si potrebbe imparare dalla esperienza per evitare di ripetere gli errori.  Le esperienze del passato dovrebbero ormai averci insegnato che occorre modificare qualcosa nell’ attitudine di gestire i problemi del settore e certamente i soggetti hanno tutte le potenzialità per farlo…. purché lo vogliano. Lo vogliono ? Chissà ?! La soluzione del problema passa certamente attraverso interventi su fenomeni complessi di natura per così dire tecnica-operativi ma soprattutto attraverso la presa di coscienza da parte di tutti della necessità di risolvere il problema e quindi la capacità ritrovando quindi un “linguaggio” comune, un codice di comunicazione e di comportamenti appropriato.

Cambiare….

La parola magica è “Cambiare”….. ma è proprio questa componente del “Fattore Umano” che rappresenta la difficoltà maggiore.  La resistenza al cambiamento, necessità che forse ormai è condivisa da molti, per il quale c’è anche una disponibilità, ma solo per quella parte che ci viene comoda, il resto, normalmente la parte più onerosa, aspettiamo che la facciano gli altri.

Per aver partecipato negli anni, da attore e/o spettatore, a tante riunioni con i rappresentanti delle parti coinvolte in questi processi mi ha sempre sorpreso il dover constatare che le persone apparentemente ignorassero che un accordo, per definizione, presuppone sempre qualche rinuncia da parte del singolo. Nella mia esperienza, di lavoro ma soprattutto di vita, non conosco accordo che non abbia richiesto qualche compromesso, una qualche rinuncia rispetto all’obiettivo di partenza, laddove la soddisfazione del successo rimane confinata alla percezione di aver fatto comunque il miglior accordo possibile.

Cambiare vuol dire recuperare, per condividerla, la mission del lavoro nelle diverse declinazioni che spettano alle singole categorie di soggetti in modo che si possa tornare a collaborare per affrontare e risolvere i problemi. Le difficoltà possiamo immaginarle come un fiume che scorre e che dobbiamo attraversare. Noi sappiamo di dover costruire un ponte ma non dobbiamo ripetere l’errore già commesso: la costruzione di “ un ponte parallelo al fiume”. E’ il titolo di una mostra d’arte organizzata da un mio amico, cesellatore e scultore in oro e argento. Gli ho rubato il titolo perché mi è sembrato rendesse abbastanza bene la sintesi dei nostri problemi. In questo costruire un ponte che attraversi il fiume ritroviamo anche il senso del sottotitolo di questo incontro : “Molta gente crede di pensare ma sta solo riordinando i propri pregiudizi”.

Ma…., ammesso che si voglia davvero cambiare….  In che cosa si dovrebbe cambiare ? Proviamo a buttare giù qualche idea…

  1. C’è un cambiamento che dovrebbe essere di tutti: smetterla di considerarci una classe di attività privilegiata e dei privilegiati noi stessi.  Noi sia “unti” dall’olio ma non dal Signore! Probabilmente siamo stati dei privilegiati per qualche decennio, così come lo sono state altre aree di attività, ma ora i tempi sono cambiati, il mercato ed il consumatore sono cambiati (anche con il nostro contributo…) e quindi dobbiamo entrare nella logica di operare nel grande segmento delle commodity, pane, pasta, mozzarelle,  detersivi, vino… neanche doc!  Questo comporta che il sistema deve attrezzarsi, perché attrezzato non è, per svolgere una vera attività di marketing anche nelle sue forme più elementari.  Deve soprattutto tenere conto del fatto che il suo esistere e quindi la sua redditività dipende da altri fattori al di fuori del suo controllo che dovrebbero indurre a maggior cautela e flessibilità negli investimenti sia materiali che umani.
  2. Le società petrolifere dovrebbero risolvere alla svelta i loro problemi esistenziali strategici di lungo termine: rimanere in questo mercato e in che modo oppure uscirne. Devono infatti rendersi conto che continuare a vivacchiare nella confusione generata dalle loro stesse poco comprensibili strategie non porta da nessuna parte. Non si può infatti continuare ad avere un doppio mercato rete ed extra rete che si confrontano sullo stesso cliente con prezzi, sconti e scontoni dei quali non si capiscono gli economics. Non si può continuare a razionalizzare la rete vendendo pacchetti di impianti destinati alla fine. Non si può continuare con i ghost, e, più in generale, con l’altalenante distruzione del servizio ed il suo periodico rilancio: che ci si decida una volta per tutte, magari dando anche ascolto, eccezionalmente, a quello che ne pensa il consumatore.Non si può continuare ad assistere al fenomeno delle vendite “anomale” senza prendere iniziative. Se la razionalizzazione della rete rappresenta davvero una criticità economica importante che la facciano perché solo le società petrolifere hanno la concreta possibilità di realizzarla e che sia un normale progetto di upgrading dove l’investimento è giustificato dai vantaggi. Se invece non fosse un elemento di criticità la finiscano di tirare fuori la questione con inquietante periodicità che suggerisce altri fini. Soprattutto facciano in modo di recuperare una immagine che ha certamente sofferto negli ultimi tempi rendendo trasparente e soprattutto comprensibile il loro modo di agire, certamente nei confronti del mondo esterno, consumatore, Istituzioni, ma anche all’interno del sistema stesso, nei confronti di imprenditori privati, retisti, gestori in modo che i diversi ruoli possano essere ridefiniti con chiarezza.
  3. I gestori, o meglio, le rappresentanze dei gestori, dovrebbero convincersi una volta per tutte ad abbandonare obiettivi e soprattutto strategie che appartengono al passato. In questi anni, soprattutto con il folle progetto “Libera la benzina” hanno fatto di tutto per arrivare ad un suicidio di massa. Per certi versi ci sono quasi riusciti e ne stanno pagando un prezzo attraverso il quasi azzeramento del loro potere negoziale reale … anche malgrado il tentativo di recuperare qualche posizione con la sottoscrizione dell’accordo unitario sulla razionalizzazione della rete.  Tanto meno mi sembra opportuna l’iniziativa che viene lanciata in questi giorni nell’obiettivo di recuperare un potere negoziale nell’ area degli imprenditori privati. Non sono riusciti a gestire i loro problemi con sei-sette società petrolifere e pensano di avere successo con qualche centinaio di imprenditori indipendenti ?! Beh! Auguri.Auguro sinceramente ai gestori di poter invece recuperare quanto è stato perduto in così poco tempo, operazione forse non impossibile se si ha il coraggio di abbandonare certi schemi ultra-protezionistici guardando alla realtà di un mercato che quasi certamente avrà ancora bisogno di loro ma solo con un ruolo diverso, con responsabilità, doveri e diritti diversi al punto che forse varrebbe la pena di trovare per loro anche un “nome” diverso per mettere definitivamente alle spalle il passato.
  4. Le Istituzioni dovrebbero evitare di farsi catturare nel ruolo del risolutore dei progetti dove i diretti interessati hanno fallito con il risultato di fornire a questi l’alibi per continui rinvii quando e soprattutto dovrebbero astenersi da iniziative unilaterali che già più di una volta si sono rivelate sbagliate. I problemi del settore della distribuzione carburanti, a differenza di altri (vedi raffinazione e logistica) sono quasi totalmente nelle mani delle società petrolifere e degli imprenditori privati, inclusa la GDO. Intromissioni di altri fanno solo danno. Le Istituzioni, Ministero, Regioni, Comuni potranno entrare poi in gioco quando i progetti dovranno essere approvati per verificare che rispettino e favoriscano l’interesse della comunità.  Piuttosto le Istituzioni collaborino con il sistema pretendendo che questo faccia la sua parte, ma allo stesso tempo convincendosi che il sistema non è poi tale da sopportare all’infinito aumenti delle accise, dell’Iva, Robin tax passate e future ma anche Cosap ed Irba varie…  Se poi le Istituzioni volessero davvero indossare l’abito del “tecnico” dovrebbero rendersi conto che le loro conoscenze ed esperienze del settore sono limitate e che quindi occorre organizzarsi per rimediare.  Il recentissimo DM riguardo alla ristrutturazione della rete di distribuzione carburanti in autostradale lo dimostra.
  5. Gli imprenditori privati. Ho lasciato in fondo le mie considerazioni riguardo agli imprenditori privati per poterne parlare più in dettaglio. Gli imprenditori privati devono sentire l’esigenza di una identità propria, una identità che è stata finora sacrificata nel rapporto di forte dipendenza dalle società petrolifere. Nulla di sbagliato…. questo era il mercato !  E’ l’esigenza che deriva dai nuovi ruoli che l’imprenditoria privata si trova ad occupare perché abbandonati dalle società petrolifere, qualcosa che comporta oneri ma anche possibili vantaggi per aver colto delle opportunità forse uniche.Così come è richiesto alle società petrolifere, i privati devono prendere una decisione strategica definitiva: uscire dal mercato o rimanervi.  Tempo fa in Assoindipendenti demmo una presentazione denominata “Il Rubicone” per il parallelismo con la decisione che fu di Cesare nel lontano 49 A.C.  Il Rubicone non è un grande fiume…. lo è solo per la Storia: in realtà è un modestissimo torrentello nei pressi di Cesena che in certi mesi dell’anno può anche essere attraversato senza bagnare le scarpe e così sarebbe il “vostro Rubicone” specialmente in una stagione come quella che viviamo oggi.  Si può attraversare il Rubicone ma non è un obbligo!

    Non c’è niente di sbagliato o di indecoroso nella decisione del lasciare se si ritiene di non avere voglia di lavorare in un contesto di mercato così diverso dal passato: si può tranquillamente rimanere al di qua del Rubicone e gestire al meglio le risorse disponibili per quanto più a lungo sia possibile. Basta essere consci della irreversibilità della decisione. Oppure si può varcare il Rubicone…. magari per scoprire che ne valeva la pena perché al di là del fiume può esserci un futuro più certo di quanto non possa sembrare, un futuro che se non altro avrà il vantaggio di renderci padroni delle decisioni importanti attraverso il controllo dei fattori critici, evitando così di affidare il destino della nostra azienda nelle mani di chi non è più in grado di garantirlo perché gli obiettivi non coincidono più, quando addirittura non sono opposti.

Il terreno di approdo sull’ altra sponda si chiama “Efficienza”, qualcosa che dovrà diventare la password per entrare con successo nella nuova dimensione che il divenire ci impone. Il passaggio del Rubicone vuol dire arrivare cioè a fare dell’ efficienza il nostro “credo”. Efficienza vuol dire una rete con un erogato e caratteristiche che la rendono competitiva nel mercato in cui opera (laddove può essere sufficiente un erogato da un milione di litri oppure essere insufficiente quello da cinque milioni di litri), una rete altamente automatizzata per consentire una adeguata informatizzazione dei processi, una organizzazione snella ma efficace. Efficienza vuol dire la sostanziale rivisitazione delle strategie di investimento che devono trovare sempre una accettabile giustificazione economica. Efficienza vuol dire tante altre cose ancora. Un lavoro in parte, o completamente, nuovo per alcuni che impone qualche aggiustamento in termini di conoscenza e professionalità che però si possono facilmente acquisire, un lavoro che richiede soprattutto determinazione ed entusiasmo per voler arrivare sull’altra sponda.

La decisione strategica rimane comunque una questione assolutamente soggettiva alla quale si può arrivare superando tutta una serie di barriere psicologiche…. Come si vede ecco di nuovo il “Fattore Umano”! Occorre dunque cancellare la speranza che il passato possa essere recuperato ad una nuova stagione dorata,  occorre convincersi che le società petrolifere potranno risultare degli ottimi partner nel ruolo di fornitori, ma non saranno più “mamme” e neppure “matrigne” per accudire i privati in tutte le loro necessità, occorre convincersi che è inutile fare, insieme a qualche collega, le barricate per arginare le conseguenze del disordine altrui, occorre soprattutto convincersi che è tempo di abbandonare la strategia del compromesso “perché-poteva-andare-peggio” così caro ad alcuni perché la storia ci dice che il compromesso  nel lungo termine logora e non evita l’ erosione continua del territorio che si vuole presidiare.  I fatti lo dimostrano. Ci sono infatti momenti quando lo scontro diventa inevitabile con tanto di rinuncia alla difesa degli interessi di breve termine particolari ed individuali di parte per salvaguardare quelli di lungo termine.

Attraverso questo processo mentale l’imprenditore singolo scoprirà che forse è un bene aver attraversato il Rubicone da solo, se non altro per rendersi conto di cosa e di chi lo aspetta sull’altra sponda. Si renderà  pure conto che, per quanto possa ritenere di essere forte e robusto, per il nuovo gioco che dovrà affrontare, non lo sarà mai abbastanza e quindi  scoprirà che l’aggregazione tra più imprenditori sarà il solo mezzo per acquisire quel potere negoziale necessario a vincere le sfide che lo attendono.

Aggregazione che non sembra essere una tendenza spontanea tra gli imprenditori privati laddove è invece forte quella dell’individualismo talora anche esasperato, un poco  razionale rifiuto del concetto universale “l’unione fa la forza” malgrado il consolidamento delle controparti sul suo opposto “Divide et impera”…. Una visione individualistica del mondo degli affari che nei decenni passati è stata esaltata dai guru che sostenevano la teoria del “piccolo è bello e buono” in opposizione alla idolatria quasi universale per il gigantismo. Oggi non è più così!  Le dimensioni contano e non poco. L’esaltazione delle aziende individuali, efficienti, creative, innovative, intraprendenti, hanno ispirato per almeno venti anni convegni, tesi di laurea, interrogazioni ed hanno fornito un buon alibi ai governi per non prendere iniziative. Uno studio prodotto da Nomisma sostiene invece che il nostro gap negativo nei confronti di altri paesi è dovuto proprio alle dimensioni modeste delle aziende che costituiscono il tessuto industriale del nostro Paese in quanto in un contesto limitato è difficile essere efficienti e competitivi rispetto alla concorrenza. In sostanza si tratta di avere aziende più grandi per competere al meglio nel mercato sfruttando al massimo i loro investimenti, diventando soggetti commerciali ed industriali ben solidi da risultare meno esposti agli scuotimenti di qualche piccola o grande crisi.

In realtà l’individualismo rappresenta un vizio di forma che dovremmo esorcizzare e lo potremmo fare guardando al problema da una prospettiva diversa. Non dovrei tanto domandarmi se sono “forte” abbastanza per affrontare un futuro che per sua natura rimane sempre incerto ma piuttosto quanto più forte diventerei se mi aggregassi a qualcun altro, ovvero cosa mi perderei se non lo facessi. Oggi, ancora al di qua del guado, un retista di 100-200 milioni di litri, in un momento in cui le società petrolifere hanno forte l’esigenza di vendere, dispone senza dubbio di un buon poter negoziale, direi anche a prescindere dalla qualità delle sua rete, ma per quanto ancora sarà in grado di difendere la sua posizione?  Di certo è meglio equipaggiato di un retista da 50 milioni e di uno da 15 milioni di litri ma la sua vulnerabilità nel tempo rimane, anzi tenderà a diventare sempre maggiore.

Oggi, i retisti maggiori sfruttano ”un tesoretto” che questo mercato offre ma che è destinato a finire in tempi non biblici: è la combinazione dello sbilancio tra offerta e domanda e dello spread tra mercato rete ed extra rete, quella parte dello spread non “giustificato” dalla differenza dei costi diversi dei due modi di operare. Quando questo spread non giustificato si sarà annullato cosa faranno gli imprenditori di cui sopra ?! Cosa potranno mai fare …. da soli !  Che dire allora di quelli più “piccoli” e meno strutturati ?

Da sempre l’individualismo si è auto-alimentato nel confronto tra individui alla ricerca di una supremazia sia reale ma molto spesso anche solo come ricerca del riconoscimento di una abilità superiore, una forma di agonismo pseudo sportivo che pure è un ottimo motore per lo sviluppo, per fare sempre meglio.   Lavorare in gruppo non vuol dire   eliminare l’agonismo ed il gusto del confronto ma comprendere che non stiamo correndo i 100 metri, idealmente la gara individuale per eccellenza, ma la staffetta 4×100, una gara a squadre dove la squadra raggiunge risultati che i singoli non possono ottenere. Il record di Usain Bolt nei 100 metri è di 9”.58, quello della staffetta giamaicana di 36”.84 : c’è una differenza di quasi 3 decimi che equivale a 5 metri che per quella specialità è come dire qualche “anno luce”! I conti dovrebbe essere ancora più interessanti per noi perché è improbabile che al momento ci sia in giro qualche Usain Bolt !

Qualcuno potrebbe osservare che non ci sono esempi di aggregazioni nel nostro settore. E’ vero: non ci sono esempi e se continuiamo così, con la nostra monocultura come guida, non ce ne saranno mai! Perché non ci guardiamo un po’ attorno ? Mettiamo da parte le mega fusioni che hanno dato luogo ai colossi Exxon-Mobil, Fiat- Chrysler, Gruppo Volkwagen ( Volkswagen , Audi , SEAT , Škoda Auto , Bentley , Bugatti , Lamborghini , Porsche , Ducati , Scania e MAN ), e guardiamo a qualcosa che è molto più vicino al nostro business e che si è realizzato anche in forma meno visibile: il mercato della … birra  !  Il 55% del mercato mondiale (nel 1990 era solo il 17%)  è nelle mani di 4 multinazionali che hanno acquisito almeno i marchi che ci sono più noti. La belga Anheuser.Busch In Bev ha messo insieme Budweiser, Stella Artois, Corona, Becks, Hoergaarden, Leffe. La ex Sud-Africana, oggi UK, SAB Miller gestisce vari marchi tra i quali Peroni, Nastro Azzurro, Raffo, Wuher. E poi ci sono la danese Carlsberg e l’olandese Heieneken a fare il resto.  OK poi ci sono anche le artigianali che adesso vanno molto di moda….. Certo fino a quando rappresenteranno una moda e comunque prima o poi anche i produttori delle artigianali finiranno per entrare nel giro delle majors! Altro esempio tutto italiano… è la joint venture tra due cotonifici storici come Duca Visconti di Modrone, del gruppo toscano Inghirami, e Bonomi, dell’omonima famiglia di Gallarate, in passato concorrenti e poi specializzati in tipologie e segmenti diversi. Ora l’alleanza è diretta a unire, sotto la stessa “ala”, i tessuti di cotone e di velluto di alta qualità di entrambe le aziende, fornitrici di tutti i grandi brand internazionali, da Armani a Etro, da Ralph Lauren a Paul Smith.

Oggi il confronto tra imprenditori privati non ha senso, anche in considerazione della natura stessa dell’ attività retail, perché l’ avversario vero con il quale dobbiamo misurarci è il mercato,  sono gli attori ed i fattori che determinano la sua evoluzione/involuzione. Oggi che senso ha l’affermazione di una superiorità su un improbabile concorrente quando non si è in grado di garantire il proprio futuro ? E’ peraltro singolare invece che l’ imprenditore si dimostri ancora incline a mantenere un sodalizio con quella che è ormai e sarà una controparte, il fornitore, la società petrolifera, piuttosto che con il collega che vive gli stessi problemi anche quando oggettivamente non è un diretto concorrente. Una specie di “Sindrome di Stoccolma” ?! Vi ricordate il film “Il portiere di notte” della Cavani ?

Pretendere di lanciare in questo momento, e proprio nel settore della distribuzione carburanti, una strategia di fusioni, acquisizioni, accorpamenti di piccole o medie aziende in aziende più “forti” sarebbe solo la più sfrenata ed insensata utopia, ma le persone dovrebbero aprire la mente al futuro andando oltre il fondamentalismo imposto da una cultura che è comunque destinata ad autodistruggersi.

Si parla molto di consorzi… Personalmente l’idea del consorzio non mi piace perché implica l’idea del “si… ma”, un prendere tempo per arrivare, o non arrivare mai, alla decisione di costituire una società di imprenditori. Talora sono gli stessi soci a mettere in discussione il consorzio affidando a questo solo una piccola parte del loro potenziale di acquisto oppure con regolamenti molto complessi, ennesima dimostrazione di una assenza di fiducia tra i vari soggetti.  Il consorzio va bene solo come “ponte” ma con il suo essere solo un “insieme di singole individualità” difficilmente avrà un futuro.

Chi può guardare alle vicende di questo mercato non condizionato da sentimenti e interessi di parte e tanto meno da qualche passione ideologica  si chiede che altro deve ancora loro accadere perché questi imprenditori si decidano ad agire. Non è stata sufficiente la perdita di competitività, non la perdita di erogato, non la riduzione dei margini per dover fare sconti, non il dimezzamento del capitale rappresentato dagli impianti che oggi valgono la metà di quanto non era tre anni fa.  Davvero… che altro deve succedere perché si prenda coscienza della necessità di cambiare ?

L’individualismo è uno degli elementi più critici del fattore umano, un modo di essere che è nel Dna del commerciante in genere e dell’ imprenditore del settore petrolifero in particolare, ma in tempi in cui le manipolazioni genetiche sono diventate pratica corrente appare ragionevole tentare di intervenire su tale Dna nell’ obiettivo di debellare il rischio di una degenerazione che potrebbe rivelarsi fatale.

“Cambiare” sembra essere diventata una necessità per tutti ed è importante che tutti producano questo  cambiamento insieme (se lo fa soltanto qualcuno non servirebbe a molto!) per ridare al sistema di ingranaggi un moto coerente e finalizzato a risultati che siano condivisi ed utili per tutti.  Così come abbiamo lasciato che una certa deriva del fattore umano, quella che ha privilegiato l’interesse individuale prodotto di una ormai anacronistica monocultura, dobbiamo ora recuperarne le potenzialità positive, qualcosa che è alla nostra portata per intelligenza, competenza, risorse…. semprechè un giorno o l’altro ci si decida, tutti insieme, a cominciare a lavorare in questa direzione.

ASSOINDIPENDENTI

Bene …. Cosa ci fa Assoindipendenti in tutto questo ? Assoindipendenti avrebbe la pretesa, forse la presunzione, di contribuire al cambiamento nel modo di gestire questo business mettendosi a disposizione di tutti, singoli imprenditori privati, società petrolifere, associazioni di categoria di imprenditori e gestori e naturalmente delle Istituzioni.

Assoindipendenti ritiene di poter dare un contributo utile a favorire tale cambiamento in considerazione di alcune professionalità ed esperienze di particolare rilievo, per certi versi uniche rispetto ad altre associazioni, ma soprattutto grazie ad un corpo sociale la gran parte del quale ha già “realizzato ed attraversato il ponte del cambiamento” o comunque sta lavorando in quella direzione, ….. un ponte che attraversi il fiume e non che segua l’argine.  Si tratta di un piccolo gruppo, una specie di club che vuole avere pochi associati non per distinguersi come esclusivo ed elitario, ma solo per facilitare le relazioni al suo interno, mettendo a disposizione una palestra dove allenarsi ad affrontare il futuro. Sono “atleti” (il che sono anche “allenatori” perché è nello scambio di esperienze e professionalità, alcune di altissimo livello, che si acquisisce la fiducia necessaria per competere con successo. Una palestra   dove al tempo stesso è possibile sperimentare il valore aggiunto del “lavorare insieme”, oggi solo come un test, ma probabile necessità assoluta del domani prossimo venturo.

Assoindipendenti non vuol essere una alternativa ad altre associazione di categoria, né essere con loro in concorrenza perché ha finalità diverse ed in linea di principio tende ad evitare interventi in aree di genere più istituzionale salvo il caso in cui il posizionamento altrui appaia in contrasto con gli interessi degli associati.

L’Associazione si propone quindi soprattutto come un punto di riferimento per gli imprenditori che già operano nel mercato della distribuzione carburanti come “indipendenti”, o che tendono a tale modello nella gestione delle loro aziende, avendo l’obiettivo di   progettare il proprio futuro   in modo che risulti meno vulnerabile alle crisi altrui. Tra le finalità troviamo il favorire le relazioni fra gli Associati per lo studio e la risoluzione dei problemi di comune interesse come quelli delle singole aziende, la promozione e valutazione delle soluzioni su temi di carattere organizzativo, economico e sociale offrendo tutta l’assistenza del caso alle imprese associate. In pratica Assoindipendenti vuol essere un laboratorio di ricerca ad esclusivo uso degli associati, una piccola ma ben attrezzata ed autogestita “Business School”.

In maggior dettaglio Assoindipendenti è impegnata sono nella rappresentanza della categoria presso le Istituzioni, nella comunicazione (informazione/incontri/seminari/analisi vendite/strategie concorrenza, ecc.), nello scambio esperienze, know-how, ecc.; nella Innovazione (Metano, GNL, Elettricità, ecc.), nel Self supply ed accordi fornitura carburanti, nel definire accodi quadro (trasporti, attrezzature, servizi, assicurazioni, attrezzature, ambiente, manutenzione), nello sviluppo di piani strategici aziendali e relativa assistenza per lo sviluppo, nella assistenza ad-hoc per specifiche esigenze degli associati.

C’è anche l’obiettivo di creare una massa critica operativa in grado di utilizzare il conseguente maggiore potere negoziale per ottimizzare alcune operazioni, ma soprattutto si ritiene fondamentale la creazione di una massa critica “culturale” che in tempi brevi possa sviluppare almeno  una “Holding Strategica Virtuale” utile a progettare il futuro delle aziende.

Il valore di massa critica culturale è qualcosa di “intangibile” e la cosa può deludere chi dall’ associazione si aspetta solo di vantaggio immediato “tangibile” sull’acquisto di prodotti e servizi. Le persone che guardano al “tangibile”, e subito, non ci interessano perché evidentemente non condividiamo l’idea che la partita del futuro si giochi su dimensioni diverse oltre quella del vantaggio immediato che pure è nei progetti associativi. La partita si gioca sulla conoscenza che da sempre rappresenta il vero potere che si può esercitare sulle persone e sulle cose.  D’altra parte la conoscenza è proprio il “debito” che nel nostro settore molti imprenditori privati pagano a chi invece la detiene sempre: un gap che va assolutamente colmato per una esigenza di “par conditio”, ma anche di dignità.

Peccato di presunzione il nostro ? Certamente sì ma forse ha una valenza maggiore di quella di coloro che pretendono di continuare a fare quello che hanno sempre fatto magari perché si “evita-il-peggio”. Di certo in Assoindipendenti non si “pensa per riordinare i propri pregiudizi”.

 

Grazie.